Un giorno Kurt Cobain si sveglia un po’ stordito (wakin’ on a pretty daze) e ha improvvisamente 50 anni. E’ finalmente sereno e in pace con se stesso. Suona ancora la chitarra e canta le sue canzoni. Sono quasi tutte ballate, ma l’atmosfera è più onirica che cinica. E la voce risente delle influenze psicadeliche degli anni ’70. Quello spleen c’è ancora, e lo mette qui e lì. Cambia anche cognome e si fa chiamare Vile. I dischi ora li firma solo col suo nome, ma scegli musicisti e produttori con la maturità e l’intelligenza di chi sa a quale risultato vuole arrivare.
Fa sorridere, certo. Non sarebbe mai stato così Kurt, ma sarebbe stato bello averlo ancora con noi, nel 2013 e scoprirlo sempre “grunge” cioè stropicciato, ma anche un po’ più rilassato. A lui questo disco di Kurt Vile sarebbe piaciuto. Ci avrebbe sentito qualcosa dei Sonic Youth e anche Lou Reed.
Ha notevoli capacità da compositore questo ragazzo di Philadelphia. Ma questo l’avevamo già intuito. Qui in alcune occasioni forse manca un po’ del dono della sintesi, però il disco è una piacevole camminata. Lo è anche anzi, forse soprattutto, nella Goldtone che , sebbene di dieci minuti, è godibile per tutto il tempo. Lo è nella title-track, che suona proprio da apertura, con un sole primaverile e uno Ye-Ye che suona molto “swinging London”. E lo è anche quando il ritmo è un po’ più sostenuto e la chitarra un po’ più accesa, come in Snowflakes are Dancing. Un buonissimo, semplice, ben scritto e ottimamente suonato, disco.