Non è mai una buona idea scrivere le recensioni di getto. Per quella di The Next Day di Bowie, mi presi una settimana di ascolti. Cambiai idea almeno tre volte e solo quando mi accorsi di aver preso una decisione, potei commentare. Non è questo il caso. Non puo’ esserlo con i Pearl Jam, non per me, non alla mia età. Compirò 40 anni il prossimo anno. Questo disco è per la mia generazione e, per noi, ci perdonino gli altri, non ci vorrà più di un minuto dopo l’ascolto per dire aver recepito il messaggio. Prima di “premere play” sulla prima traccia, mi batteva anche un po’ il cuore. Che scema, eh? E’ solo musica, mica è importante. Non più forse. Comunque, per me, per la mia generazione, la musica era una cosa importante. Ve lo giuro che lo era. E’ durato pochissimi anni, ma è successo. Non è strano che Backspacer non mi abbia fatto lo stesso effetto nell’attesa. Credo che questo ritorno dei Pearl Jam, sia stato così tanto anelato perchè oggi, nel 2013, finalmente, abbiamo bisogno di mettere una bandierina. E dopo averla piantata, voltarci a guardare indietro con l’aria di chi ha perso, ma non se ne dispiace più di tanto. Ve lo spiego meglio: noi siamo la generazione degli sconfitti. Degli illusi. Della ruota che doveva girare e per girare ci ha schiacciati. Nel 1993 la cosa era già nell’aria e certi musicisti l’avevano capito e stavano tentando di dircelo. Poi Kurt è morto e qualcosa si è spezzato. Chiedetelo a chiunque oggi abbia tra i 35 e i 45 anni. Se farete una domanda, una qualunque, a chi ha 70 anni, lui vi dirà, anche parlando d’altro, dove era quando spararono a Kennedy. Noi, nei nostri discorsi, ci mettiamo sempre in mezzo quel giorno in cui ci arrivò la notizia di Kurt. Dapprima era stato un vociare tra un banco e l’altro, tra una classe e l’altra, poi, una volta tornati a casa, a pranzo, lo dissero anche al telegiornale. Questo potrebbe non entrarci nulla con Lightning Bolt, e invece c’entra. Perchè già dopo il primo ascolto un punto risulta chiaro: il motivo della scelta di quei due singoli lì. Proprio quelli. Il grunge era la cosa più vicina al punk fino a quel momento. La presa di coscienza, la rivoluzione e anche l’angoscia e la rabbia. Il punk è libertà. Ma poi c’erano anche le chitarre mai precise, perchè non era importante come una cosa la si diceva ma che la si dicesse e che facesse male. E le voci come quella di Eddie andavano bene per far arrabbiare. Ma erano perfette anche per rassicurare. E per le canzoni d’amore. Quindi Sirens e Mind Your Manners, che non sono affatto rappresentative dell’album, sono le due cose che conoscevamo già. I due diversi aspetti di quel tempo amato: il punk e la poesia. Nel mezzo c’è questo disco. Ed è l’infinita serie di sfumature che accompagnano l’evoluzione di quei ragazzi lì (la generazione intera intendo), che hanno saputo reinventarsi in mille modi, senza mai perdere tuttavia la propria identità. Si inizia con Getaway, che dalle prime battute ci lascia intendere che sono sempre loro. Una specie di “Ciao come state? Siamo i Pearl Jam nel caso in cui aveste ancora dei dubbi”. Con Mind Your Manners, ci ricordano il primo assioma del grunge. Punto uno: punk. My Father’s Son sottolinea come i tempi siano diversi. Adulti. Siamo adulti e siamo ancora qui. Non tutti ce l’hanno fatta, ma qualcuno ha guardato avanti e si porta ancora dietro il fardello degli anni pesanti, ma nel tempo li ha elaborati. E ha elaborato la musica, la linea di basso che cambia come fosse un cuore che perde i battiti e li riprende subito dopo. Fino a quando non arriva il tempo di Sirens. Punto due: il cuore. Arriva Lighting Bolt e subito appare chiaro perchè questa canzoni porti il nome del disco, cosa che non era mai successa prima: perchè la variazione del tempo, che prima è più lento e poi veloce, rock graffiante, rappresenta quante cose siano successe mentre il rock restava lo stesso e noi cambiavamo. Infallible è bellissima. Sincopata, si ferma e riparte. Altalenante, trascinata, poi melodica, e pare che la voce di Eddie la guidi per mano, dicendo di quanta presunzione inutile ci siamo riempiti le tasche, prima di capire che non eravamo diversi dagli altri. Diversi no. Forse però un po’ più critici sì. Un po’ filosofi. Malinconici a tratti e scuri come certi angoli della mente dove ancora adesso ci rifugiamo. E questa è Pendulum, forse il più grande esperimento di introspezione mai realizzato in musica dai Pearl Jam. Swalloed Whole, ci fa respirare di nuovo e subito è un viaggio in macchina con gli amici, come in quegli anni lì. Un po’ di leggerezza, non ci puo’ che fare bene. Let The Records Play è un altro esperimento per loro e per noi. Signori, si cambia! Il blues! Questo davvero non ce l’aspettavamo. E funziona! Ma è con le ultime tre canzoni che il disco, rallentando, ci svela il segreto nascosto, ma già intuito. Lightning Bolt è il disco di Eddie. Ma non l’avrebbe mai fatto senza i Pearl Jam. Così quella Sleeping by Myself, che aveva convinto solo quelli che avevano amato le canzoni di Eddie all’Ukulele, ora è completa. Ci sono tutti, ed Eddie può fare la sua musica. Ed è davvero la musica di tutti noi. C’è spazio ancora per due ballate: la scivolosa Yellow Moon e la chiusura che ci fa promesse per il domani Future Days. I believe. Dice così. Io credo che a cinquant’anni e dopo vent’anni di carriera si abbiano ancora tante cose da vedere e da fare e da dire. Ma solo se si è masticato duro tutti i giorni, in fondo al cuore, cambiando sempre solo il metodo, mai l’intenzione. Eddie è il portavoce di quei ragazzi lì, di noi, ragazzi di quei tempi lì. E questo è il suo disco, il disco dei Pearl Jam e anche di tutti noi. Non si può sembrare migliori di quando si aveva la forza dei vent’anni. Ecco perché non è certo il disco migliore dei Pearl Jam. Ma si può essere migliori di quello che al tempo si credeva che si sarebbe diventati. Quindi è il disco migliore che i Pearl Jam potessero fare negli anni 2000. E non è poco.
Barbara Venditti per Wasabi Radio