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«Come è bello il disco Rock del Duca Bianco del Glam.» Questo vien da dire al terzo ascolto di The Next Day. Al primo non si puo’ far altro che continuare a ripetere a se stessi: «David Bowie. E’ il nuovo disco di David Bowie, che emozione! Credevamo si fosse ritirato e dopo le ultime prove da studio non ci aspettavamo poi più molto. Anche se sono dieci anni che stiamo sperando. Che emozione. Si’ le canzoni, sì, ma che importa, le ascolterò bene poi, ora faccio zapping.» Il secondo ascolto lo si fa con un amico, qualcuno di cui si ha stima e a cui poter confessare, nelle pause tra i brani:«Sì, effettivamente è lui, c’è molto di Bowie in questo disco. Ma non sembra proprio proprio Bowie, Bowie. E’ più amaro, più distorto, malinconico a tratti… vabbè quello da sempre. Ma non ti sembra un po’ arrabbiato?» E’ il quarto ascolto che innamora. Ed è all’improvviso ad ogni canzone come ascoltare la sua voce per la prima volta nella vita e capire che lo si amava già, anche da prima di conoscerlo. Duro è duro. Chissà se con sè stesso o con quel suo spettro celato dietro al riquadro bianco. The Next Day. Ero così. Punto. Senza rimpianto, rimorso, smarrimento o nostalgia. Where are We Now, il “singolo delle meraviglie” perchè regalo davvero inaspettato, ci aveva fatto sospettare che ci fossero un po’ di lacrime qua e là. Disorientato lui a cercare i resti della su vita nei giorni berlinesi, e disorientati noi che senza più i nostri punti fermi in playlist, dalla cassetta da sessanta minuti alla lista orgogliosamente condivisa su Spotify, non abbiamo resistito alla tentazione di dire «Eh, quelli sì che eran tempi. Siamo due vecchi Noodles.» E invece no! E’ un album brillante. Intelligente. Propositivo. Guarda a tutti i David Bowie che conosciamo rivisitandone forma e contenuto. Dagli echi ottanta della title track, al secondo singolo estratto che è un tripudio di chitarre distorte mischiate a cori ammiccanti. Passando per il suo primo vero amore, il sax, con cui conversa nella sincopata Dirty Boys. Pop e convincente nelle ballate Where Are We Now e Valentine’s Day, per poi tornare ai toni cupi degli anni berlinesi, sperimentale e crudo, come in Love is Lost e How Does The Grass Grow. Psicadelico, ma non di quella psicadelìa tanto di moda ora che scimmiotta i Beatles. Piuttosto di quella vera nata negli anni della Swinging London nei club fumosi di Londra, che qui c’è in I’d R Rather Be High, trasformata poi in quell’incomprensibile Newave tutta sua , in If You Can See Me. Semplicemente Rock’n’roll in You Will Set The World On Fire. Dance all’improvviso , ma alla sua maniera, con una tutina di fiamme o un negligè di voile, in dancing Out Of Space. Anni ’60, come solo lui ha saputo essere con la sua Sorrow, in You Feel So Lonely I Could Die e poi di nuovo scuro e misterioso, terrificante in Heat. Prima di tre Bonus Track che sono l’una forse un omaggio a chi voleva qualcosa di proprio inconfondibilmente suo, l’altra un inchino a Tony Visconti e l’ultima una promessa per il futuro: I’ll Take You There. Vi porterò ancora lì. In quel posto dove da sempre ci incontriamo: nel cuore. Bentornato Maestro.
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