Il Boss ha troppo da fare in questi primi giorni del 2014 per curarsi della promozione radiotelevisiva del suo nuovo High Hopes. Pare di vederlo far l’inchino e dire , imbracciando la chitarra: «Ah già: il disco! Mi è molto piaciuto e poi dovevo farlo per forza una volta avuta l’ispirazione. C’erano nuovi punti vista e troppe strofe nell’aria senza una casa. Sono contento che vi piaccia, ma ora devo andare. Sapete, siamo in tour». E’ ancora il Wrecking Ball Tour, ma si farà appena in tempo a cambiargli nome e di nuovo, “Via!” verso l’High Hopes Tour. Una pura formalità.
Perché le canzoni, sì, contano, ma la gente, quella conta di più.
Avere quelle persone lì davanti, nutrirsi della loro gioia, cantare per loro, suonare con la famiglia, portare nel mondo di persona quell’energia che c’è in studio e che non si puo’ in nessun modo mettere sul disco, per quanto sia un disco buono. In tour, durante i live , succedono le cose. E’ la vita che ti passa addosso, quella che vedi girare intorno, quella che poi finisce nei versi e nei riff. Durante i concerti la musica è solo il corollario. Chi è stato ad un concerto di Springsteen e la sua E-Street Band capisce subito al volo cosa voglio dire. Ad ogni concerto, capita sempre, e di data in data capita sempre prima in ordine di setlist, che diventi poco importante la scelta del brano, quel che conta è la festa. Con i suoi momenti di emozione, di gioia, di nostalgia, di malinconia, di noia persino. Un concerto così, diventa ogni sera la metafora della vita. Per questo se una cosa deve succedere, succederà durante un concerto e non ci sarà modo di ignorarla nei giorni successivi. Così la mano di un “intruso provvisorio” nella E-Street Band s’è unita alla mano del Boss e tutto è cambiato. Durante alcune date del Tour in Australia, la E-Street Band aveva dovuto fare a meno di Little Steven per altri impegni. Se mai sono stati fatti dei provini per sostituirlo, devono essere stati un bagno di sangue. Tom Morello ha avuto la meglio e glia altri della band si sono dovuti accontentare di suonare con lui. Anche nel pubblico si sono accontentati. Poveretti. Va be’. Vogliamo così tanto bene a Little Steven che siamo disposti a dire che Tom Morello non sa suonare come lui. Ma a parte questo, di sicuro ha portato una ventata di novità. Sound rock, attuale, potente come il sound della E-Street Band sa essere, ma più elettrico ovviamente, riportando un po’ in asse la direzione che ultimamente aveva vacillato verso il folk, strizzando l’occhio persino al gospel e ad atmosfere corali, come è giusto che siano per una band così, ma qualcuno diceva un po’ troppo corali. Quindi continuiamo a volere bene a Little Steven, anche se oggi ringraziamo Tom Morello di esser stato musa ispiratrice del Boss, come lui stesso afferma nelle note di copertina di questo diciottesimo disco. Il lieto annuncio di un nuovo disco, era turbato da un piccolo particolare che non a tutti era andato giù: non sono canzoni nuove. Oh no! «Be’, scusate – avrebbe detto il suo avvocato difensore – questo povero Cristo sta in tour 365 giorni l’anno, trova comunque il tempo per andare in studio, si lascia ispirare da nuovi suoni e deve pure scrivere versi inediti? » Pareva troppo, in effetti. Ma sarebbe stato bello. Non perchè non fosse giusto fare High Hopes, che anzi, come vi dirò tra poco, è anche molto bello. Ma solo perchè chi del Boss non ne ha mai abbastanza, semplicemente ne vuole sempre di più.
Così eccoci, dopo la potente High Hopes, in cui Tom Morello c’è forse anche più del Boss, perchè grazie a lui infarcita di quella cattiveria sana e vera che si deve avere quando si parla di speranze importanti, dove speranza non c’è n’è quasi più, arrivano tutte le altre. La cover dagli Havelinas già tentata negli anni novanta e qui riproposta, non è sola, ma ce ne sono altre due: Just Like Fire Would, degli australiani The Saints, band australiana tra le preferite del Boss, che è il singolone dei singoloni, da suonare in radio fino a non poterne più, bella, vivace, entusiasta, insomma, che piacerà a tutti, e la meravigliosa Dream My Baby Dream, dei newyorkesi Suicide, che qui trovano il degno omaggio, necessario a ricordare chi è Bruce, da dove viene, e quanto quel Nebraska, non sia mai stato solo un momento, ma un modo di essere, non solo di sentire, che per sempre sarà sotto la pelle. Canzone che spesso è stata suonata in chiusura dei concerti, come è successo per altri brani qui finalmente incisi perché, come dice Bruce, avevano bisogno di una casa, essendo stati proposti solo dal vivo. E così c’è spazio per American Skin, che in pieno centra il punto su cui Springsteen va insistendo da sempre: la rabbia e la rivolta, che siano prima interiori, di comprensione profonda, per poi manifestarsi con il suono delle voci, levate al cielo di disperazione. E che sia un rock ossessivo, pulsante, in cui la chitarra è il controcanto. Non è unanime invece il giudizio su The Ghost Of Tom Joad. Non è unanime neanche in me, poiché una voce mi dice di poter apprezzare il ruggente incipit di chitarra, totalmente inaspettato e un’altra mi costringe a preferire la ballata acustica già conosciuta e tanto amata. Bellissima Down In The Hole, dove c’è Patti ad aprire la strada ad uno Springsteen prima con voce lavorata e poi naturale, che pare cantare una nuova versione di I’m On Fire. Il raffronto non è perdente, e questo è ciò che conta. Quando si parla di outtakes da Wrecking Ball non si puo’ prescindere dal vero motivo per cui sono stati eliminati: il disco era inizialmente concepito come corale e gospel e, nel cambio di rotta finale, alcune tracce perdevano spessore se decontestualizzate. Qui lui le reinserisce, ma forse avrebbero potuto restare ancora per un po’ senza dimora. L’impressione è che dovessero fare volume, ma è un peccato veniale che porta i titoli di This Is Your Sword, Heaven’s Wall e Hunter Of Invisible Game. Discorso a sè va fatto per Harry’s Place. Molto anni novanta, esclusa da The Rising e qui ritirata fuori forse per compiere la magia del recupero del sax di Clemons con la chitarra di Morello. C’è il ripescaggio di un brano del 2009 inoltre, che non incluso in Working For a Dream, è la canzone per la E-Street Band del disco. Una specie di elogio alla famiglia, insomma. Alla sua famiglia, non alla famiglia in generale, sebbene si parli di una festa di fidanzamento. E poi c’è il capolavoro: The Wall, dedicata al leader dei Misfits, deceduto in Vietnam. E’ un tributo che ci sta addosso. Addosso a tutti noi, perché la guerra e il dolore da sempre hanno voci che le raccontano e occhi che le spiegano, ma le parole di Bruce, le sue, fanno sempre un po’ più male e un po’ più bene. E dove non arriva lui, arriva quell’assolo di tromba che, pare essere un lungo silenzio, da rifletterci su, finché un nuovo giorno non porti altra vita e altri cuori e altre canzoni. E che sia un giorno, se non di grandi speranze, almeno di grandi propositi.
Barbara Venditti