Io, personalmente , vivo l’ esordio con la Blue Note di Gregory Porter come la metafora della vita. Quel che sospetti accada, ad un certo punto accade per forza. Ma deve essere un sospetto, una possibilità che improvvisamente concedi agli eventi, sebbene fino a quel momento totalmente inauspicabile. Scrivo questo pensiero mentre ascolto Movin’, dal suo album Liquid Spirit, appunto, il primo con la Blue Note, dopo due meravigliosi dischi con etichette indipendenti. La canzone dice: “You’re movin’ in a wrong direction lady”. Aggiunge anche “so far away from me”, ma io sorvolerò sull’intento amorosamente possessivo del brano e mi terrò il consiglio buono per altre situazioni. A volte semplicemente ci muoviamo nella direzione sbagliata, sebbene, l’impulso iniziale, quello di cui non abbiamo memoria, ci spingeva verso altre latitudini. Da bambino, in California, aveva invidiato i dischi di sua madre, quelli di Nat King Cole. Aveva voluto imparare a cantare come lui, tanta era l’emozione che quelle corde vocali gli suscitavano. Be’, forse non proprio come lui, ma gli piaceva distrarsi così, nei giorni in cui non si dedicava alla sua principale occupazione: il football. Dalla highschool sarebbe rapidamente passato al college, a San Diego, proprio grazie a quella borsa di studio che lo sport nazionale in America garantisce anche a chi sui libri non ci passa le giornate. I suoi colleghi lo deridevano dicendo che se fuori dal campo sembrava un gentiluomo d’altri tempi, sul prato verde finiva sempre per fare la parte dell’orco. Il terrore degli avversari. Ma quell’irruenza gli fu fatale e un grave incidente alla spalla decretò la fine della sua carriera sportiva. Probabilmente non fu immediata l’idea di ripiegare sul gentiluomo. E su Nat King Cole. Ma fu il male minore. Aveva perso il padre e la madre, già così giovane. Era solo. Iniziò a cantare nei locali di New York. Tante volte ho immaginato quelle sue sere malinconiche nella grande mela, di ritorno dal club, in cui aveva fatto sentire a pochi la sua voce. Mi sono immaginata il trauma delle speranze infrante, la via verso New York, la disperazione per gli amori mai giusti perché sempre lontani dal cuore di chi è ferito per altri motivi. Quanto bene fa la disperazione, al cuore gioioso di chi fa musica. Così l’ho immaginato ascoltando le storie delle sue canzoni, che parlano, probabilmente, anche di quei giorni. Dell’incontro con Kamau Kenyatta, pianista, compositore e sassofonista, che fu suo mentore. Della sua prima collaborazione importante con Hubert Laws, intitolato guarda caso, Remembers the Unforgettable Nat King Cole. Della sorella del flautista Laws che amava la sua voce al punto di volerlo aiutare ad entrare nel cast di quel musical a Broadway. Insomma: la vita difficile, complicata, avventurosa, piena di sorpresa, di chi, a un certo punto, dopo aver imparato a cadere, inizia quasi a diventare curioso pensando “Vediamo cosa succede adesso” . Presentando questo suo nuovo disco alla stampa, parla volentieri di sé, ma senza guardare troppo indietro come per leccarsi le ferite, o con fare di rivalsa, piuttosto per far trapelare senza presunzione quanto gli eventi, i dolori e le cose vissute siano parte di lui, del presente. Di un uomo che guarda dritto al futuro. Un uomo è questo: l’insieme dei passi messi l’uno dietro l’altro, che fanno il suo cammino. Così è la sua musica: con radici salde, che sia Jazz, o Soul o Gospel. Ma sempre nuova. Non è quindi una vittoria l’approdo alla Blue Note, ma il prosieguo del percorso. Però, con una punta di commozione, prima di recensire il disco (perchè questo è solo il prologo), mi piace vedere questo passo come un coronamento, giusto, onesto, leale.
La recensione: Gregory Porter si definisce un cantante di jazz. Dee Dee Bridgewater parla di lui dicendo :”Non avevamo un cantante jazz come lui da tempo. Ed è anche un ottimo autore. Ci racconta storie fantastiche”. Jazz insomma. Ma allora perchè sentiamo tutto questo r&b, e soul, e funky, e gospel, nelle sue corde? Perchè c’è. E lui lo sa. Questo Liquid Spirit è senza dubbio il suo disco jazz più soul, dei tre, prodotti fino ad ora. E come la musica soul, che appunto significa “anima”, ti avvolge senza sovrastarti mai. Entra nel profondo e più giù. Lo fa vibrando in pezzi come la title track, o Movin’, o la sua versione di Musical Genocide. Nelle ballate come Hey Laura, che Bill Whiters tanto ispira, quasi quanto Brown Grass. Nella gioia leggera di Wind Song, che chissà perchè mi fa venire in mente Stevie Wonder (ma giuro che è un paragone tutto mio, forse perchè l’emozione è quella che mi da Overjoyed). Nel modo di rendere viva, brillante, il classico The “In” Crowd. Nella tristezza, a volte, che però non guasta la gioia di questo disco, anche con brani come Water Under Bridges. Nei temi che spaziano dall’amore perduto o ritrovato , alla fiducia nei valori di libertà e equità, come in Free, ispirata a Martin Luther King.
Io attenderò di ascoltare Gregory Porter in concerto. E nel frattempo cercherò la mia via, forse inciampando come ho fatto in questi anni, ma senza inseguirla più. Lasciando che lei trovi me, alla fine. E, come questo disco mi ispira, “Vediamo che succede adesso”.
Barbara Venditti