Dicembre 2011. Una mattina come tante passata qui in radio a farmi domande sul futuro mio, del paese, del mondo. Qualcuno, mi pare in tv, diceva che il Natale 2011 era l’ultimo del mondo e forse per questo quella mattina espiavo le mie colpe versando lacrime su una tazza di caffè e battendomi il petto ripetendo la litanìa “E’ colpa nostra, nostra. Lasciamo questo posto, andiamo via. Cerchiamo una vita migliore di poche pretese. Un posto dove ricominciare”. Ora che ci penso, la tv non ce l’ho, quindi forse erano gli spiriti dei Maya che mi parlavano nelle orecchie. Alla fine avevo acceso il microfono per condividere, se non i pensieri, almeno le canzoni, con chi era dall’altra parte. I pochi ma buoni di Caffè Nero, su Wasabi. Avevo aperto il NME per sapere che fine aveva fatto Jack White e se i Cure sarebbero venuti in Italia, ma la notizia del giorno era un’altra. Non bastava il tour celebrativo, pure un disco di inediti! The Beach Boys. Nuovo disco a giugno. «Oh no. Loro no, per favore. Non hanno neanche un buon motivo per tornare insieme, neanche uno. Magari si vogliono bene, sono parenti, amici. Forse hanno bisogno di soldi, ma, in definitiva, a noi cosa importa? Non è un buon momento questo per ricordarci che ciò che avevamo era solo finzione, che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. O meglio, che quelli prima di noi hanno vissuto al di sopra delle possibilità di almeno tre generazioni future. Rimpiangere il mare , il sole, il vento, l’America degli anni d’oro, quando forse è stata tutta una manovra dell’Intelligence per diffondere l’uso della droga? A discapito delle facoltà mentali di Brian Wilson poi! E’ crudele. Crudele per noi che non avremo mai i Beach Boys e per questo ci esaltiamo per gli Young The Giant. Crudele per quelli che avevano i Beach Boys e non si rendevano neanche conto di quale enorme bellezza ci fosse nel poter contare sulle scelte di produttori intelligenti. Crudele per i Beach Boys soprattutto, perchè l’emancipazione wilsoniana aveva chiarito quanto il “progetto Beach Boys”, fosse stato frainteso dai Beach Boys stessi. Crudele anche dal punto di vista estetico, non filosoficamente parlando, ma intendendo proprio le rughe, gli acciacchi e la calvizie. No, via! “Beach Boys – The Reunion” bannata! » A nulla erano valse le rassicurazione del Ghè, che scrive con me (anzi, per me), la maggior parte delle puntate monografiche di Caffè Nero. Non ne volevo sentire di storie riguardo il compleanno, l’umiltà di Brian che cerca un punto d’incontro, le armonizzazioni, gli arrangiamenti, il gusto di riavere i Beach Boys tutti insieme. Poi, arrivati a maggio, ascoltando il singolo dissi due cose. La prima : “That’s Why God Made The Radio. Sempre i soliti gli Americani. Se una cosa non l’hanno fatta loro, allora l’ha fatta Dio”. La seconda: “Eccoli lì. The Beach Boys. Nel 2012. Gradevole. Non vedo l’ora che esca per ascoltarmelo fingendo che il mondo sia una meraviglia e che vada tutto bene. Ci sono i Beach Boys. Yeppaa! Evviva. Tutti al mare, tutti al mareee. Sgrunt.” Intendiamoci, io li amo, li adoro. Non potrei vivere senza di loro. Ma mi va bene così. Chi ha dato, ha dato. Chi ha avuto, ha avuto.
Primo giugno. Non resisto dài, ascoltiamoci st’anteprima, in fondo pagare le spese di una radio serve a questo, no? Play.
Lo sapevo. Ha vinto Mike. Non c’era altra possibilità, il destino è nel nome, anzi nel cognome. Mike Love. Il portavoce dell’amore, della felicità, yeah yeah e uacciuari uari. Il concept è chiaro. In fondo cosa potevamo aspettarci? La fiaba dei bambini, istruiti da un genio, che per qualche tempo ha giocato con loro, prima di dire a tutti che era tempo di diventare grandi. E per questo con Think About The Days veniamo invitati subito a cercare la concentrazione giusta per tornare indietro nel tempo. Pronti? Via! That’s Why God Made The Radio. E che radio! Giacchè Dio, travestito da un italianissimo Marconi, pensò bene di inventare la radio tanto valeva neglianni ’60, e varrebbe ancora, metterci dentro Phil Spector, The Mamas and Papas,The Byrds, The Monkees, insomma, tutti. Tutti lì, vestiti solo di fiori nei capelli ad ascoltare The Rivieras che cantano California Sun. Mi pare di vederli. E su tutti loro, in sovrimpressione, le pagine di un calendario che si sfoglia da solo, mentre in radio cambiano le canzoni, ma questa “That’s Why God Made The Radio” resta, oggi come ieri, anche se è solo di oggi. Isn’it Time è un guizzo alla Brian. Somiglia più a lui che imita l’Orso Balù nella sua ultima produzione dedicata ai brani , che ai Beach Boys di Surfin Safari, ma l’intento è chiaramente quello di salvare capra e cavoli. Spring Vacation ..summer weather we’re back together. Per la mania di associare cose tra loro distanti, mi torna in mente Pamela Tiffin, nei panni di Marisa in Straziami Ma Di Baci Saziami che dice : «Musicabilmente me piace, ma le parole no». Scuoto un po’ la testa, lamentandomi del il fatto che dei poveri vecchietti siano costretti a far girare la ruota ancora alla loro veneranda età. E poi The Private Life of BIll And Sue e Shelter mi appaiono come il tentativo di modernizzare qualcosa di antico come… come… come la musica. Mi arrendo. Le armonie, le voci, gli strumenti. Sai quelle cose che prima si scrivono e poi si suonano? O forse il contrario, non lo so. Insomma le canzoni. Sono loro, sono tornati, è il 2012 e quest’estate in spiaggia nessuno potrà lamentarsi con me se suonerò un disco dei Beach Boys! D’un tratto la cinica, fastidiosa, pignola “altra me” va a dormire (finalmente) e mi godo questa gioia. Mi spiace solo che abbia vinto davvero Mike. Anche Shelter , scritta come le due precedenti, esclusivamente per questo disco, non è distante da quell’idea che gli altri, senza Brian, avevano voluto portare avanti. Il disco è ben prodotto e suona benissimo, questo non è un particolare da poco, per chi come me è stanco di ascoltare robetta compressa, in cui l’uso smodato di decibel non riesce a sostituire un contenuto. Dopo il tentativo ben riuscito di trovare soluzioni accattivanti come fossero “ballad indie appena pubblicate nella playlist figa di una fanzine londinese” è la volta di una canzone che Mike aveva scritto qualche anno fa. Daybreak Over The Ocean. E qui mi commuovo, perché penso a Dennis, piccolo, che nel 1961 va a parlare con suo cugino Mike: « Dai convinciamo Brian a suonare musica surf, che quello sport sta prendendo piede da queste parti!» Così piano piano, inizio a cambiare idea persino sulla vittoria di Mike. Mi piace Strange World nel testo, moltissimo, e Beaches in Mind sarebbe piaciuta anche a Dennis e Carl, tanto che per un secondo pare quasi di sentirli. Eccola lì, la chitarra di Carl, è lei! E poi, infine, ecco la sorpresa. Da restare senza fiato. From There to Back Again. La voce splendidamente dosata è di Al Jardine, e quando arriva Brian, autore di questa meraviglia, sembra di vederlo ammiccare bisbigliando “Sleep a lot eat a lot brush em like crazy”. Ma è solo l’inizio, perchè come promesso nelle tante interviste di presentazione, questi ultimi tre brani sono una nuova piccola suite. Pacific Coast Higway e Summer’s Gone continuano questo discorso, che io ho immaginato tra Brian e il suo cuore, ma anche tra ciascuno della band e il proprio cuore. La condivisione di quel sentimento che così bene si lega al commiato, è un bel dono che ci fanno, per iniziare questa nostra estate. La stessa estate che, senza nostalgia, per qualcun altro se ne va, lasciando solo il buono.
Giudizio: Un numero molto alto di stelle.
Barbara Venditti