La notizia è di oggi e la fonte è ufficiale. Grande occasione per dei musicisti americani di essere ricordati come fossero inglesi. Chi, a parte i Beatles ha potuto tenere una conferenza stampa memorabile in cui dire: “Be’ ciao, eh. Noi abbiamo altro da fare e anche il mondo cambierà presto. In conclusione vi diciamo: The love you take is equal to the love you make”? Inchino, sipario e 50 anni di applausi. Insomma chi? Senza che nessuno morisse prima del sipario però. Questo perché la classe non è acqua e soprattutto non è americana. Loro, gli americani, sono inclini a non ritirarsi mai, perché fino all’ultimo istante ci sarà sempre la possibilità di fare “show”; di sorprendere, fosse anche con una morte, vera, inscenata, cercata o misteriosa. E poi, puff! Sparire nel nulla restando per sempre. Sì magari continuare da solisti, scrivere per gli altri, azzeccare due o tre colonne sonore, ma il mito no: quello bisogna farlo finire in tempo perché resti tale per sempre. Dunque, come fossero i Beatles, con insospettabile classe europea, gli ar-i-em salutano con la manina e si preparano a raccogliere i frutti di questa bella mossa. Almeno così venderanno le copie rimaste invendute dell’ultimo disco. Cinica? Certo. Io posso dirlo, mi spetta come risarcimento per questi trentun anni di copie comprate. Sono onesta, non possono essere trentuno; il mio primo fu Reckoning, e lo sottrassi a un cugino più grande, perchè io avevo solo dieci anni. Però, nel tempo imparai ad amare anche quelli che non avevo potuto avere in tempo reale, e quella Talk About The Passion, parlava davvero della mia “passione” da adolescente. Perchè alcuni dischi sono così. Non conta se sono in classifica ora o se li hai comprati perchè erano in promozione a noveenovantanove, tra quelli “Gold”. Per te è nuovo , ed è il disco del tuo tempo. In sintesi: cosa conta se i Beatles si sono sciolti? Se si sciogliessero i Cure, importerebbe a qualcuno? Tanto A Forest l’hanno già scritta e anche Pictures of You. Ah già i “live”. I Beatles hanno deciso di non farne più nel 1966, ma Sgt Pepper’s è dell’anno successivo. E dopo tutti questi anni non c’è nessuna radio rock al mondo, o radio pop, o radio classica che non inserisca le loro canzoni in playlist come fossero hits.
Questo era solo il prologo. Ora la riflessione. Ed è una riflessione che mi tormenta da giorni, trovando solo oggi, dopo questa notizia, la chiusura del cerchio.
La musica non conta più. Non l’arte in sè dico, ma l’uso emotivo, sociale, psicologico a cui è destinata. E’ così già da un paio d’anni almeno, ma in questi ultimi mesi l’arte musicale ha completamente dismesso i panni da canalizzatore di attenzione. La musica aveva iniziato ad essere importante quando era stata scelta come veicolo di condizionamento per la generazione che nel 1954 aveva circa diciotto anni. S’era reinventata nel 1962, per un altro tipo di diciottenni, funzionando ancora meglio. Sull’onda dell’entusiasmo, il suo potere commerciale s’è rafforzato nel tempo anziché durare pochi anni. Ha toccato il picco massimo negli anni ‘80 e poi è lentamente ridisceso. Un guizzo da moribondo che si ribella, s’era visto nei ’90, ma era appunto il riflesso di un moribondo. Il problema è che la mia generazione, quella notoriamente più sfigata, è invecchiata credendo che sarebbe sempre stata una cosa importante, la musica, nella vita di tutti. Ed è per questo che, se alcuni hanno ceduto al peso del non trovare più spazio per i loro argomenti musicali, sostituendoli, nelle conversazioni con App, Mobile, SocialNetwork, Cinema3D, altri, come me , si sono rintanati nel loro eremo di cristallo, fatto di copertine sbiadite e dischi di cui magari non ricordano neanche il titolo, ma sanno che la numero otto salta a due minuti e ventisette. E allora giù, a tirar via da siti improbabili discografie intere, per inzeppare un iPod che continui ad essere cimelio di guerra, come a dire: io sto qua, resito, esisto. La pubblicità delle automobili non ha più bisogno di Light My Fire, e quindi nessuno pensa che produrre una nuova Light My Fire sia importante. I pensieri degli autori ripiegano su sè stessi, le parole di chi scrive non si incastrano bene come una volta e uno che suona la chitarra non ha il polso di chi inventa un sito che crea in automatico quindici suonerie, se gli dai solo tre note.
La musica non conta più. Chi accende la radio l’accende per altri motivi. Chi accende la radio su web l’accende per vedere se intorno al player ci sono applicazioni che fanno qualcosa di particolare, tipo farti indovinare quali saranno le prossime dieci canzoni.
I R.E.M. questo lo sanno, e anche se Peter Buck, ad esempio, ha tirato fuori un paio di progetti per il futuro degni della sua vecchia band, come Minus5 e Tired Pony, sa che lo fa per sè, non per il pubblico. I R.E.M. invece erano per il pubblico, ed è per questo che da manifesto dell’Indie americano sono diventati eroi del mainstream. Come i Beatles insomma.
Li amo tanto i loro dischi, e alcune loro canzoni sono davvero importanti per me. Questo non ha nulla a che fare con il loro scioglimento, temo. E neanche con il fatto che è ora di trovarci un lavoro. Io ci ho provato più volte, ma finchè anche musicisti, editori, cantanti e saltimbanchi, continuavano a pensare che il loro lo fosse, mi sentivo giustificata nel mio peregrinare radiofonico-musicale. Ma sono stanca di quel ritornello che fa:
I’m breaking through
I’m bending spoons
I’m keeping flowers in full bloom.
E’ tempo di inventarsi un’applicazione o un social network. Mo’ ci provo.
Buona vita.
Barbara Venditti
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